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Dal mio Diario

cavallo

È di nuovo mattina, un altro giorno. Il profumo del caffé si diffonde in tutte le stanze, le cose ei movimenti sono ovattati nel silenzio più denso. Sono felice.

È il 3 gennaio 2003, casa mia. È passato un secolo, quasi non mi ricordavo più quelle mattine in cui il sole splendeva sempre, anche quando pioveva. Attimi di eternità mi confondono i pensieri sul futuro e anche sul passato che vuole ostinatamente annebbiare il presente.
Nonostante tutto, è il giorno più bello della mia vita.

Sono trascorsi tre mesi dall’alba di quella mattina di ottobre 2002. Tre mesi lunghissimi e, allo stesso tempo, molto intensi per come hanno segnato la mia vita e quella delle persone a me più care.

La poliziotta mi fa preparare la valigia senza fretta, mi osserva, forse sta già pensando a ciò che mi aspetta. Sembra tutto irreale, impossibile, un brutto sogno dal quale ci si sveglia ritrovando, finalmente, le proprie cose e il proprio tempo. Chiudo la zip del borsone e rimugino sulle tante volte che mi sono svegliata di soprassalto pensando di essere in ritardo per andare a scuola, e invece era domenica. Sollievo.

Ma non era domenica.

L’automobile corre veloce. Guardo dal finestrino, ma non vedo niente. I colori, le luci, i rumori sono mescolati come fotogrammi indistinguibili di un film appena iniziato.
Si aprono i portoni del carcere femminile di Pesaro. Le altre detenute, per me
inspiegabilmente, sanno già chi sono e cosa ho fatto. Alcune urlano qualcosa, altre mi additano, le più si limitano a fissarmi con gli occhi, come si guarda un pesce dentro l’acquario.

Un solo pensiero: qui ci sto giusto qualche giorno, del resto ho portato con me il minimo indispensabile, il pigiama e qualche foto.

Il tempo intanto comincia a trascorrere lentissimo. C’è un rapporto di uno a tre rispetto alla vita fuori, una giornata in carcere è di 72 ore. Sempre lì a pensare al minuto dopo e a quello dopo ancora, e così all’infinito.

Il momento dell’immatricolazione è quello che ti fa comprendere definitivamente il passaggio dentro un altro mondo, con le sue regole e i suoi tempi. Di colpo sparisce l’alfabeto, sei un numero. Solo due pensieri: cosa ci faccio qui e cosa starà succedendo fuori.

Senza telefono, senza vestiti, senza trucchi. Qui non esiste il confronto con nessuno. La competizione non esiste nel mondo qui dentro. Manca la cosa più elementare: il complimento di qualcuno.

Mio cognato è una guardia carceraria, ma non avevamo mai affrontato l’argomento con lui. Solo in alcune occasioni avevo colto, nel vuoto dei suoi occhi, la tristezza di chi, per vivere, è costretto a questo lavoro in cui le differenze esistenziali fra coloro che hanno le chiavi delle celle e gli altri che non le hanno, sono davvero minime. Ti accorgi subito che la durezza dei detenuti non è dissimile da quella delle guardie.

Quando si dice “finire al fresco”, si afferma una verità assoluta. Il freddo ti entra nelle ossa, l’umidità bagna le coperte come fossero state appena lavate. Il mio espediente per sopportare i rigori dell’inverno consisteva nel circondare il letto con bottiglie di acqua bollente. Ed ero fortunata a disporre dell’acqua calda.

Per tutto il giorno ho pensato ai miei genitori. Volevo vederli o, almeno, sentirli
immediatamente. Mi chiedevo se potevano aver retto a questo ulteriore dolore, dopo quello incolmabile della perdita di mia sorella, poco tempo prima. Se mi avessero detto subito che li avrei incontrati solo dopo un mese, non so dire se la mia sconfinata speranza avesse retto.

Per il resto del pomeriggio bisogna Inventarsi qualcosa. La frequentazione dell’Accademia di Belle Arti mi ha ricordato I lavoretti con la carta (l’unico materiale disponibile) che ho poi insegnato ad alcune detenute con le quall ero diventata amica. In questo modo abbiamo realizzato anche l’albero di Natale. Già Il Natale, la festa più bella dell’anno, quella che non posso perdere per nulla al mondo. Quell’albero che ho sempre fatto, perfino sulla tomba di mia
sorella. Poi Capodanno, la telefonata con Mirko, Il brindisi improvvisato, gli auguri “forzati” per il nuovo anno e, più di tutto, la stretta al cuore ad ogni esplosione di fuochi d’artificio che sembrano enormi visti attraverso gli occhi lucidi.

La sera si scrive oppure sl puoi guardare la tv, fino quasi alle due di notte.

Il martedì è Il giorno della settimana più Indaffarato, ma solo per quelle che hanno un minimo di disponibilità economica. È il giorno della lista della spesa. Le cose richieste vengono poi consegnate il venerdì seguente. Si avrebbe voglia di tutto, perché in questo posto manca davvero tutto. A parte il rotolo di carta Igienica settimanale, le uniche cose fornite sono lo spazzolino da denti, piatti, posate e bicchiere in plastica (tutti molto “vissuti”), una coperta e le
lenzuola che vengono cambiate ogni venti giorni.

Anche per quanto riguarda le possibilità di “svago”, tutto si risolve nella cosiddetta “stanza relax” dove è possibile trovare qualche libro, un computer senza il cavo di alimentazione, una scacchiera senza i pezzi. Le carte sono vietate, si dice per scongiurare il gioco d’azzardo.

Anche se i giorni erano uno uguale all’altro, avevo la forte determinazione di rimanere lucida. Sempre. E sl perché, non l’avevo ancora detto, la tanto sbandierata “assistenza psicologica” si risolve esclusivamente con la somministrazione di sonniferi potentissimi. Alla fine ho ceduto anch’io ed ingurgitavo le mie sessanta gocce, da prendersi rigorosamente al cospetto degli infermieri.

È un mondo con le sue regole, difficilmente comprensibili da fuori. Ciò che nella vita di tutti i giorni è una banalità, in carcere viene dilatata all’inverosimile e diventa un “caso” dalle conseguenze Imprevedibili. Al di là delle estremizzazioni, il carcere comunque ti “Insegna” ad affrontare i problemi, non è possibile rinviarli anche perché il hai sempre di fronte, non potendo andare da nessuna altra parte.

Forse la cosa che ti fa capire di più Il carcere “visto da dentro” è che qui ci sono delle persone, si proprio delle persone, con le loro storie, I loro problemi e le loro inevitabili conseguenze. Ci può essere un’alternativa di vita per una ragazza picchiata dal padre e costretta a spacciare?

Se da fuori sono tutti delinquenti, dentro, nonostante la durezza Imposta dalla situazione, trovi delle Inattese sensibilità.

Ecco allora che la cella diventa la “casa” da arredare. Si cuciono le tendine per le finestre, si appendono le foto alle pareti, si spolverano le suppellettili. Alla fine comunque ti chiedi davvero se non siano detenuti anche le guardie che trascorrono la loro “vita” dentro.

“Ferrara si vesta che deve uscire!” disse la guardia con tono deciso. Ho pensato subito ad uno scherzo, come spesso facevano. Ma questa volta era vero. Siccome le guardie sono responsabili della tua Incolumità dal momento della comunicazione fino all’uscita dal cancello, devi fare tutto con una fretta che contrasta, paradossalmente, con i ritmi lentissimi della vita carceraria.

“Deve attraversare la strada, prendere l’autobus per la stazione e salire sul treno” è Il congedo delle guardie. Se non hai soldi, rimani, chissà per quanto tempo, sul portone del penitenziario.

Appena fuori, la parola “futuro” ha iniziato a suonare strana, addirittura finta. Ma la vita continua, si dice sempre dopo una brutta disavventura. Forse è vero.

Di nuovo a casa. Di nuovo l’odore di casa mia. Di nuovo i miei riti quotidiani.

Ivana

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